l momento più elettrico del jazz, nello specifico quello legato alla fusion music, non sembra fare molti proseliti fra i musicisti contemporanee, soventi più aderenti a talune forme evolute di post-bop con di divagazioni classicheggianti e pseudo-scandinave. La fusion spaventa poiché meno scolastica e patternizzata, soprattutto richiede una visione più ampia del jazz e non solo, a meno che non ci si riduca ad una sorta di jazz-rock-funk allegrotto da cocktail bar e prossimo allo smooth jazz. Per contro, la musica della Bosque Sound Community incorpora elementi di elezione che rimandano al periodo aureo della fusion music post-davisiana, a meta strada tra le eclettiche visioni di Zawinul ed il fertile immaginario di Chick Corea.
Anche in tale circostanza la A.MA Records di Antonio Martino è stata lungimirante, sostenendo la causa di un un ensemble che consocia alcuni dei musicisti più brillanti provenienti dalle regioni dell’Est Europa, dove il jazz mostra di essere un terreno assi fertile in tutte le sue molteplici espressioni. Milos Bosnic basso, Stevan Milijanovic tastiere, Aleksa Milijanovic batteria, Aleksandar Radulovic Percussioni, Milena Jancuric flauto e Aleksandar Petkovic sax soprano sono tutti musicisti vaglia che ruotano intorno al concept di «12 Angy Mushrooms». Un particolare asset strumentale che a tratti ricorda alcune fasi del progetto Return To Forever di Corea ed in altre l’avventura dei Weather Report di Shorter e Zawinul, ma taluni passaggi potrebbero lambire tranquillamente gli assunti della Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, Detto in soldoni, una vera delizia per i cultori di un sound e di una componente del jazz moderno, talvolta dimenticata e sottovalutata. Ve detto che nell’abito del costrutto sonoro, a parte l’ispirazione, non c’è alcun plagio sotto il profilo creativo e neppure un intento tributaristico nei confronti di nomi succitati. Il bassista Milos Bosnic, leader dichiarato della formazione, mostra una tempra compositiva non comune, agendo in assoluta autonomia e distillando alcune piccole perle di fusion contemporanea, le quali potrebbero essere tranquillamente provenire da un’epoca lontana, come i pezzi rari di una casa d’arte rivisitati per il mercato del lusso, ma con la capacita di guardare con fierezza quanti l’hanno preceduto, e senza complessi. Tutto l’impianto sonoro scorre in maniera fluida e privo di attrito, attraverso un’impostazione strumentale equilibrata, dove ritmo e melodia trovano sempre la perfetta compliance.
Fondata nel 2015 dal bassista Milos Bosnic, la Bosque Sound Community riunisce il Ghota dei musicisti jazz che ruotano intorno alla scena di Belgrado, con l’intento di sviluppare, sia pure con line-up cangianti, una musica senza barriere doganali, ma contrassegnata dal mood ambientale e da inflessioni territoriali: tutto ciò si avverte nelle scelte melodiche, raffinate, poetiche e permeate di atavici sentori, le quali fanno sistematicamente da ponte e da collante tra il virtuosismo esecutivo e le fughe in fase d’improvvisazione. Un contrassegno saliente, che sottolinea ulteriormente la bravura del bassista leader, è la capacità di sapersi misurare sul componimento esteso, che richiede più di una competenza e la non prevedibile abilità di agire su molte leve, al fine di non rendere il tema asfittico e ripetitivo. La prima conferma viene dall’opener «San Francisco Waltz», disteso sul una lunga e polverosa free way sonora lunga quindici minuti, la quale sembra attraversare e descrivere millimetricamente un sogno californiano, con quella sorta di bilocazione creativa che solo i grandi autori posseggono. Senza tralasciare il fatto che l’organico nel suo piazzamento strumentale sa bene come far vibrare le corde dei sentimenti, dei sogni e della fantasia. I primi input che provengono dall’album si trasformano in suggestioni, tanto che in una blind audition si potrebbe pensare ad una dilatata perifrasi musicale, ricca di cambi e di modulazioni armoniche, nata dalla penna di Pat Metheny o di Chick Corea; invece il motore mobile non è San Francisco ma Belgrado, città di frontiera, in grado di intercettare più mondi possibili.
Procedendo nell’ascolto, ci si accorge che i «12 funghi arrabbiati» non sono per nulla avvelenati, ma costituiscono un piacevole pietanza agrodolce e che gli assoli delle tastiere, del sax soprano e del flauto sono esempi di alta scuola fusion. Cinque lunghi brani riescono a dare la tempra di una band nel pieno della propria vigoria esecutiva, mentre le ombre della notte si abbattono su una città ideale con «Please One For Goodbye», componimento segnato da un intreccio di melodie che vagano per i quattro punti cardinali dello scibile sonoro, con antichi memorabilia di ritorno ed incursioni eurodotte, tra jazz vagamente ambient e rock-soul-ballad. Nell’uso corretto della definizione fusion, «Arsen D» ne pennella il significato semantico più confacente, divisa com’è tra anagrammi jazzistici nella componente armonica, qualche passo di danza balcanica ed un impianto strumentale elettrico. Le due tracce eponime «Twelve Angry Mushrooms (Parte1)» e «Twelve Angry Mushrooms (Parte 2) si muovono su un groove più urbano e moderatamente funkfied, specie la prima che addirittura ricorda le pulsioni ritmiche di taluni dischi di Marvin Gaye e di Curtis Mayfield, mentre la seconda accende il ricordo sulla Elektric Band di Corea, con un basso robusto a metà strada tra John Patitucci e Stanley Clarke ai tempi dei Return To Forever. In fondo sono solo flash di memoria e punti di ancoraggio propedeutici alla descrizione, poiché «12 Angy Mushrooms» della Bosque Sound Community, a parte un rapporto con il passato meramente ispirativo, vive e respira con autonomia di pensiero nel cuore battente della contemporaneità.